Made in Italy: piace a tanti, ma attrae pochi
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Il brand “Nazione” cresce di posizione a livello mondiale classificandosi al nono posto tra i 100 Stati più potenti, ma subisce ancora la mancanza di politiche interne che sfruttino al massimo la capacità di “vendersi” al meglio. L’analisi completa di Brand Finance e Financial Times
a cura di Alessandro Allocca
LONDRA – Se fosse per un “non italiano”, la giornata sarebbe scandita dal Made in Italy. Vestito con abiti realizzati da stilisti italiani; colazione, pranzo e cena, aperitivo compreso, con prodotti italiani; in giro alla guida di una super lusso italiana e, ultimo ma non per importanza, stile di vita all’italiana: sole, mare, arte, cultura e bellezze di ogni genere. Se fosse un “non italiano”, per l’appunto, perché un italiano quasi non sembra rendersi conto del valore che ha sottomano, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Un valore che a livello mondiale è rappresentato da tre semplici parole: Made in Italy. Qualunque cosa essa sia, dal più semplice dei biscotti cucinato nel forno sotto casa, al capo di abbigliamento unico realizzato con materiali ricercati, passando per lo yacht realizzato nei cantieri più blasonati.
Ma, a conti fatti, quanto effettivamente vale questo famigerato “Made in Italy”? Perché non essendo un prodotto al pari di una lattina di Coca Cola, o dell’ultimo iPhone, quanto invece di un qualcosa di non tangibile che dà però la percezione di importanza che genera comunque fatturato, allora rimane difficile inserirlo in un contesto ben preciso. A meno che, a farlo, non ci pensi qualcuno specializzato proprio in questo. Parliamo di Brand Finance, la più importante agenzia di valutazione del brand e degli altri asset intangibili del mondo con sede nella City di Londra e uffici in oltre 20 paesi, Italia compresa. Si tratta di una società indipendente che effettua tutte le analisi seguendo i principi delle norme ISO 10668 sulla valutazione del marchio.
Brand Finance si è presa la briga di capire quanto vale il Made in Italy e, soprattutto, come è inserito nel contesto degli altri “Made in…” del resto del mondo, tanto da stilare una classifica dal titolo Nation Brands 2015 che riguarda i principali 100 paesi ordinati sulla base del valore complessivo dei vari marchi nazionali. Se volessimo calcolare il valore finanziario dell’Italia, o di una altra qualsiasi nazione, naturalmente non dovremmo considerare solamente il PIL, ma dovremmo considerare anche il valore degli asset tangibili, come ad esempio monumenti, opere d’arte, fabbriche, edilizia, e quello degli asset intangibili, come il capitale umano, il saper fare, i brevetti e il marchio Italia più in generale. Brand Finance misura da anni il valore di quest’ultimo asset che genera il National Brand Value, cioè la somma del valore dei marchi delle aziende nazionali. L’osservatorio di Brand Finance realizzato in partnership con FDI Intelligence del Financial Times, per essere ancora più chiari, non si riferisce a settori merceologici specifici quanto all’immagine complessiva di un paese che influenza sia gli acquisti di tutta l’offerta di prodotti, servizi e investimenti, sia le relazioni internazionali, e sia il capitale umano.
Partiamo, quindi, dal dire che il valore del brand Italia è pari a 1.445 miliardi di dollari ed è aumentato del 12% rispetto al valore 2014. La buona notizia è amplificata dal fatto che la crescita è stata determinante nonostante il PIL 2014 fosse lievemente negativo. L’incremento italiano da un lato, il contestuale decremento dell’Australia e il crollo del brand Brasile dall’altro, ha permesso al National Brand Value Italiano di superare questi due paesi passando dall’undicesimo posto al nono.
Buone notizie ma che, se letta con attenzione, fanno emergere aspetti scuri che non permettono al nostro paese di tornare ai fasti di una volta.
Nonostante un lieve miglioramento, la forza del brand Italia continua ad essere nettamente inferiore rispetto a quella delle Nazioni con le quali ci confrontiamo normalmente. Il fatto che il brand Italia non sia abbastanza forte implica sicuramente una maggiore difficoltà delle aziende italiane a fare business e potenzialmente un minore valore di queste imprese – ha detto Massimo Pizzo managing director Italia di Brand Finance -. Per supportare il brand Italia sarebbe necessario intervenire sugli elementi che influiscono più negativamente sull’immagine del nostro paese: sistema giudiziario; gestione dei talenti, regolamentazione e tassazione delle imprese; prezzi delle strutture turistiche”.
Rimanendo, quindi, sulla questione “belle notizie ma da analizzare con attenzione”, il brand Italia di fatto è stato classificato “Forte” (rating A) ma la questione è che tutti i nostri paesi concorrenti hanno ottenuto una rating migliore del nostro, ad esempio Francia, Spagna, Portogallo e Repubblica Ceca sono classificati come “Molto Forti”; altri paesi come la Germania, la Svizzera e in testa a tutti Singapore, sono classificati come “Estremamente Forti”. Al nostro livello, tra gli altri, oltre alla Grecia ci sono tutti i paesi dell’Est Europa. Nello stilare la classifica, come anticipato, molto ha influenzato l’andamento dal punto di vista dell’immagine dei mesi precedenti. Tanto che, ad esempio, nonostante il brand Germania sia considerato uno dei migliori a livello mondiale, ha recentemente perso qualcosa come 191 miliardi di dollari a causa degli scandali Siemens e Deutsche Bank, e delle politiche verso i paesi UE, Grecia in testa. Certamente lo scandalo Volkswagen influenzerà negativamente soprattutto i valori dell’anno prossimo.
Lo score 59, che posiziona il nostro brand nella fascia di rating A, è basato sulla media di tre pilastri: 52% Organizzazione sociale, in cui pesa molto negativamente in particolare il sistema giudiziario; 53% Fare Impresa, in cui pesano molto negativamente la regolamentazione, la tassazione e la gestione dei talenti; 71% Fruizione di beni e servizi, in cui troviamo gioie e dolori nel turismo: scarso rapporto qualità prezzo; bene, ma non al top, attrattività, infrastrutture ed apertura.
Tuttavia non c’è moltissimo da stare allegri – ha aggiunto Massimo Pizzo – perchè il valore del nostro brand nazionale è ancora troppo basso. Infatti, il Canada che è all’8° posto nella stessa classifica, ha un valore del brand nazionale del 30% maggiore rispetto al nostro” continua”
Da quest’anno poi Brand Finance ha cominciato anche a misurare il Nation Brand Effect, il valore in dollari del brand Italia: cioè quella quota del valore del brand che non dipende dal prodotto e dal relativo marchio dell’azienda ma dalla Nazione di appartenenza. Il 5% di incremento del Nation Brand Effect, dovuto al lieve miglioramento della forza del Made in Italy, è stato sufficiente a migliorare il ranking dal 12° all’11° posto.
La differenza di performance tra il valore del brand nazionale (+12% relativo alla somma dei brand delle aziende italiane) e il valore del brand Nazione (+5% relativo al valore del brand Italia) indica che i brand delle imprese non sono supportati a sufficienza dal brand Italia. Una ulteriore conferma della insufficiente spinta che il brand Italia dà ai brand delle nostre imprese, nasce da un semplice dato: mediamente il brand Italia ha un peso pari all’11,7% sul valore complessivo del brand delle singole aziende mentre, negli altri paesi il supporto dato alle varie aziende dal brand Nazione arriva fino al 17%. Questo significa che le imprese italiane, anche solo per ottenere gli stessi risultati dei concorrenti stranieri, devono investire molto di più, poiché meno supportate dal proprio brand Nazione”.
Uno dei settori dove il Made in Italy ha più peso, rispetto a tutti gli altri e soprattutto rispetto al resto dei competitors a livello mondiale, è indubbiamente il food & beverage. Purtroppo, però, se da un lato questo rappresenta una forza per il nostro paese, dall’altro rappresenta un’occasione per gli altri. Occasione che, però, non va per nulla letta in maniera positiva. La contraffazione, la falsificazione e l’imitazione del Made in Italy alimentare nel mondo ha infatti superato il fatturato di 60 miliardi di euro, con quasi 2 prodotti di tipo italiano su 3 in vendita sul mercato internazionale che in realtà non hanno nulla a che fare con la realtà produttiva nazionale.
Il falso Made in Italy a tavola colpisce in misura diversa tutti i diversi prodotti, dai salumi alle conserve, dal vino ai formaggi ma anche extravergine, sughi o pasta e riguarda tutti i continenti. In realtà, a differenza di quanto avviene per altri articoli come la moda o la tecnologia, a taroccare il cibo italiano non sono i Paesi poveri, ma soprattutto quelli emergenti o i più ricchi a partire proprio dagli Stati Uniti e dall’Australia. In testa alla classifica dei prodotti più falsificati ci sono i formaggi partire dal Parmigiano Reggiano e dal Grana Padano che ad esempio negli Stati Uniti in quasi nove casi su dieci sono sostituiti dal Parmesan prodotto in Wisconsin o in California. Ma anche il Provolone, il Gorgonzola, il pecorino Romano, l’Asiago o la Fontina. Poi ci sono i salumi più prestigiosi dal Parma al San Daniele che spesso vengono “clonati”, ma anche gli extravergine di oliva e le conserve come il pomodoro san Marzano che viene prodotto in California e venduto in tutti gli Stati Uniti.
In conclusione, dati a parte, i primi che dovrebbero preservare il valore del Made in Italy sono indubbiamente gli stessi italiani, scegliendo prodotti, sia da mangiare, che vestire o altro ancora, realizzati al 100% nel Bel Paese. Ovviamente con la globalizzazione la cosa diventa giorno dopo giorno sempre più difficile, ma basta un piccolo sforzo per tutelare quanto di buono è stato fatto nel corso del secolo scorso, quando la nostra Italia era tra le nazioni più invidiate al mondo.